È passato un anno dall’arrivo della pandemia nel nostro Paese, centomila nostri concittadini hanno perso la vita, altri hanno perso il lavoro, altri ancora hanno visto le loro quotidianità cambiare radicalmente. Sin dai primi giorni la domanda più frequente è stata: quando finirà tutto questo? L’estate scorsa avevamo sperato che la svolta che ci avrebbe permesso di dismettere le odiose mascherine che coprono i nostri sorrisi fosse vicina, ma ci siamo sbagliati e il prezzo della seconda ondata è stato ancor più alto di quello della prima. Ora abbiamo una risposta alla domanda sul quando, imprecisa ma abbastanza certa: non presto, il virus non sparirà né quest’estate né il prossimo Natale, rimarrà con noi ancora a lungo. Quanto, esattamente, è difficile a dirsi, ma diventerà endemico e ci accompagnerà, ospite sgradito delle nostre vite, ancora per un periodo non breve.
Caleranno i casi severi e i numeri dei malati ricoverati, caleranno anche i contagi ma non si azzereranno. I vaccini sono la nostra unica ancora di speranza ma la battaglia per immunizzare tutti sarà lunga e complessa, non solo per gli aspetti organizzativi ma perché il virus muta, alcune varianti necessiteranno di altri richiami e non sappiamo ancora quanto duri l’immunità conferita dai vaccini o dall’infezione, tuttavia i dati scientifici oggi disponibili ci suggeriscono che sia solo per qualche mese. Ci avviamo verso una prospettiva di una campagna vaccinale mondiale permanente, e anche per questo l’Italia non può restare fuori dalla produzione del farmaco che diventerà il più diffuso e importante della storia. Israele viene spesso citato quale esempio di come si possa uscire dall’incubo virale ma la realtà, sebbene migliore che nel resto del mondo, non fa che confermare gli scenari futuri di una endemia persistente.
Qualche numero può aiutare a riflettere: in Israele su una popolazione di 9.300.000 abitanti i vaccinati sono 4.805.000, di questi il 52% ha ricevuto il primo vaccino e il 38% ha ricevuto anche la seconda dose, il 48 % non è ancora coperto. Una percentuale non irrilevante rifiuta di vaccinarsi, in una recente intervista televisiva il premier Netanyahu ha parlato di 500 mila persone oltre i 60 anni. Ma pare che anche tra i più giovani sia alto il numero di coloro che preferiscono non vaccinarsi. A questi si aggiungono poi i ragazzi di età inferiore ai 16 anni per i quali nessun vaccino è ancora disponibile. Finora si contano 791 mila contagiati, 4,9% di positivi al tampone, oltre 700 malati gravi (al picco pandemico erano 1.200), con una netta riduzione dell’età dei pazienti ricoverati: oltre il 70% ha meno di 44 anni e il 44% sono bambini o adolescenti. La variante inglese è ormai assai diffusa, si sono registrati circa 450 casi di sudafricana e 3 primi contagi della variante newyorkese. Nei prossimi giorni riapriranno quasi tutte le attività del Paese e a breve arriveranno dall’estero 20 mila israeliani per le votazioni delle elezioni politiche del 23 marzo ma cosa accadrà in termini di contagi è fonte di preoccupazione.
Come si può capire, anche nel Paese all’avanguardia nella campagna di vaccinazione, i problemi sono lontano dall’essere risolti. Per questo dobbiamo preparaci a scenari che prevedano un assetto sanitario diverso da quello passato, con strutture a ricettività variabile che possano dedicarsi alla cura dei malati che continueremo a registrare, salvaguardando la cura anche di tutte le altre malattie e potenziando fortemente la sanità, quella territoriale così carente ma anche quella ospedaliera su cui oggi si regge il Paese. L’Italia e l’Europa devono lavorare per costruire una società pronta ad affrontare scenari ben diversi da quelli che ci saremmo attesi e noi tutti dovremo rassegnarci a non abbracciarci e stringerci la mano ancora, purtroppo, a lungo.
Corriere della Sera - Sergio Harari