Secondo una recente indagine della Società Italiana di Medicina Interna, avere un rapporto empatico con i pazienti riduce di 4 volte il rischio di ricovero per il malato e aumenta fino al 40% le sue possibilità di tenere sotto controllo i valori di colesterolo e glicemia, riducendo anche il pericolo di burn-out (forma di stre delle professioni di aiuto) per il medico.
Le parole che noi medici diciamo toccano sensibilità profonde, soprattutto quando le rivolgiamo a chi è in attesa di speranze, le espressioni cambiano significato a seconda dell'intonazione della voce o della profondità dello sguardo. Eugenio Borgna, neuropsichiatra novarese di fama, scrive nel suo illuminante libro “Parlarsi: la comunicazione perduta” (Einaudi): “Come posso conoscere, o meglio come posso intuire, quello che le mie parole comunicano a chi mi ascolta, a chi vorrei aiutare nella sua tristezza e nella sua angoscia, nella sua inquietudine e nella sua disperazione?”. Peraltro la medicina è un racconto, che comincia con la narrazione dei pazienti della loro malattia e continua con le storie descritte dai medici per discutere i casi clinici, come spiega Siddartha Mukhrjee nel libro “L'imperatore del male” (Neri Pozza), vincitore del premio Pulitzer, che è stato definito la biografia del cancro.
In un sondaggio online, svolto tempo fa dall'associazione Peripato in collaborazione con Corriere, solo il 35,1% degli oltre 2000 partecipanti era soddisfatto del tempo dedicato dal loro medico al colloquio, 32,7% lo era solo in parte e 32,2% non lo era per nulla. Forse, poi, oltre al tempo materiale, sempre più difficile a trovarsi, conta la capacità di sintonizzarsi con il tempo interiore dell'altro.
Creare quella relazione umana che permetta al paziente di sentirsi accolto nelle sue paure e nelle sue fragilità è il difficile compito che hanno le parole del medico.
[Fonte: Corriere della Sera - inserto La lettura]