Cosa accade in chi ha contratto l’ infezione da Sars CoV-2 dopo la negativizzazione del tampone? Ritorna tutto come prima o il virus innesca un meccanismo di malattia a scoppio ritardato? Che implicazioni di salute ha il post Covid? A queste domande ha cercato di rispondere uno studio appena pubblicato su una importante rivista scientifica internazionale, il Journal of Internal Medicine , condotto da un gruppo di ricercatori che ha valutato l’impatto, a distanza di tempo, della prima ondata pandemica nella regione più colpita d’Europa, la Lombardia. Il lavoro è stato sviluppato da un team di esperti che comprendeva il Policlinico di Milano (Pier Mannuccio Mannucci), l’università di Milano (chi scrive), la Regione Lombardia (Ida Fortino e Olivia Leoni), l’Istituto Mario Negri (Alessandro Nobili, Giuseppe Remuzzi, Mauro Tettamanti, Barbara D’Avanzo e Alessia Galbussera) e si è basato sull’analisi dei dati amministrativi (resi anonimi) della Regione Lombardia.
I risultati dopo sei mesi
Si è così valutato cosa è accaduto a distanza di sei mesi in chi ha contratto l’infezione e si è negativizzato al tampone entro il 30 giugno 2020, considerando i nuovi ricoveri ospedalieri, gli accessi in Pronto soccorso, le visite mediche, gli esami di laboratorio e strumentali di tutti i tipi (radiologici e non) e il consumo di farmaci; in pratica qualsiasi evento sanitario è stato tracciato e valutato fino al 31 dicembre 2020. Purtroppo, i risultati sono lungi dall’essere tranquillizzanti e devono rappresentare un primo momento di riflessione sulle ricadute a distanza della pandemia sul Servizio sanitario nazionale.
I pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi: chi aveva avuto la malattia a domicilio, chi era stato ricoverato in reparti non intensivi e chi invece era ricorso alle cure dei reparti di rianimazione. Sono stati esclusi dall’analisi i pazienti gestiti nelle residenze sociosanitarie per anziani (Rsa). La popolazione risultava così costituita da 48.148 cittadini: il 43% (20.521) non aveva fatto ricorso all’ospedale (età media 50 anni), il 54% (26.016) era stato curato in reparti non intensivi (età media 62 anni) e il 3% (1.611) era stato assistito in terapia intensiva (età media 59 anni, solo il 13,5% con più di 70 anni, a riprova della drammatica selezione che è stato necessario attuare fra chi si poteva o meno assistere, vista la limitatezza dei posti letto nelle rianimazioni). Anche il sesso della popolazione nei diversi setting assistenziali fornisce indicazioni preziose: il 64% di chi è riuscito a gestire a casa la malattia era donna, percentuale che scende al 42% tra gli ospedalizzati meno gravi e al 22% tra chi è stato in terapia intensiva, dato che conferma la minor gravità dell’infezione nel genere femminile.
Le differenze per casi
A distanza di sei mesi dalla negativizzazione del tampone sono deceduti l’1,2% degli infettati che avevano sofferto di Covid a domicilio, il 2% di quelli ricoverati nei reparti non intensivi (questi hanno avuto la peggior sopravvivenza) e lo 0,7% di quelli che erano stati assistiti nelle rianimazioni. Nello stesso periodo sono dovuti ricorrere a un nuovo ricovero il 5,3% di quelli che erano stati curati a casa, il 10,9% di quelli che erano stati ospedalizzati e 16,3% di era stato ricoverato in intensiva. La maggior parte delle nuove ospedalizzazioni sono state determinate da cause cardio-respiratorie, renali e neurologiche. Anche gli accessi ai Pronto soccorso sono stati molto più frequenti in chi è stato ricoverato rispetto a chi è rimasto a casa.
Gli autori dello studio hanno poi messo a confronto lo stesso gruppo di persone nello stesso periodo di tempo del 2019, prima della pandemia, quanto a consumo di risorse sanitarie e farmaci, in pratica la medesima popolazione è stata usata come controllo di sé stessa. Anche qui i dati sono sorprendenti: le visite mediche sono più che raddoppiate rispetto al pre-pandemia, le spirometrie hanno avuto una esplosione, con una moltiplicazione addirittura di 50 volte nelle persone che erano state in intensiva, gli elettrocardiogrammi sono più che quintuplicati nei pazienti che curati nelle rianimazioni e oltre che raddoppiati in quelli ricoverati nei reparti non intensivi. Stesso andamento per le Tac del torace, che sono cresciute di 32 volte nei pazienti dimessi dai reparti più critici e di 5,5 volte in quelli ricoverati nei reparti di degenza normale. Anche la necessità di controlli degli esami del sangue è cresciuta moltissimo, in tutti i gruppi, compresi quelli che il Covid l’hanno avuto a casa. Nei sei mesi di osservazione è aumentato poi il consumo di farmaci e nuove terapie, il che significa che il virus ha anche indotto lo sviluppo di nuove malattie, in particolare di natura metabolica, come il diabete (dato che è stato confermato da un importante studio americano appena pubblicato), cardiovascolare, neuropsichiatrica e respiratoria, oltre a aggravare le preesistenti.
Cause e prevenzione
Il quadro di insieme quindi è molto impegnativo sia in termini di salute dei singoli (quali controlli fare dopo aver avuto l’infezione e come essere certi di non avere conseguenze a lungo termine), sia di salute pubblica, considerando l’enorme impatto sul consumo di risorse che ne deriva. Una riflessione attenta sui servizi da potenziare va immediatamente fatta, anche perché questo studio è confermato da altre recenti analisi che vanno nella stessa direzione: il post Covid è una condizione che richiede cure e attenzioni particolari. Le ragioni sono probabilmente da ricercarsi nello stato di infiammazione cronica indotta dal virus con una disregolazione immunitaria che persiste nel tempo. Bisogna poi considerare che queste sono le valutazioni effettuate dopo solo sei mesi, non abbiamo ancora idea di cosa possa avvenire più in là nel tempo e neppure se le varianti che sono arrivate successivamente abbiano lo stesso effetto. C’è ancora molto lavoro da fare per scoprire tutti gli effetti del virus ma è già ora di pianificare come correre ai ripari per far fronte anche a queste conseguenze della pandemia.
Corriere della Sera - Sergio Harari