Sono sempre più forti le evidenze scientifiche sui danni a lungo termine dell’infezione da SARS CoV-2, quella che l’OMS ha definito la “condizione post-Covid”. E, purtroppo, sia i tanti che ne hanno sofferto, non solo per le forme più severe, che il Ssn dovranno correre ai ripari. È di questi giorni la pubblicazione sull’importante rivista scientifica Nature Medicine di uno studio basato sui registri amministrativi americani, che ha messo a confronto 153.760 soggetti che avevano contratto l’infezione con una popolazione di oltre 12 milioni di individui usati come controlli (storici e contemporanei).
Quello che emerge è che chi ha avuto il Covid, a distanza di 12 mesi, ha un rischio significativamente aumentato di infarto miocardico, ictus, aritmie, insufficienza cardiaca, eventi tromboembolici. Tutto questo indipendentemente da età, sesso, etnia, presenza o meno di condizioni predisponenti come diabete, pregresse patologie cardiovascolari, ecc. L’aumento del rischio è purtroppo presente anche in chi ha avuto forme leggere infettive e non è stato ricoverato, sebbene cresca progressivamente con la gravità della forma sofferta in fase acuta.
I dati di questo lavoro sono molto solidi e devono aprire una importante riflessione sulle ricadute di salute pubblica che avranno, considerata anche la grande diffusione che ha avuto il virus. Quali controlli dovremo poi svolgere per screenare precocemente tutti coloro i quali hanno ora un rischio aumentato di sviluppare malattie cardiovascolari? Infine, questo studio si è focalizzato sugli aspetti cardiologici ma cosa ci aspetta in futuro per altre possibili malattie?
Corriere della Sera - Sergio Harari