La risposta a questa domanda la possiamo trovare in una bella intervista rilasciata dal direttore della più importante rivista medica al mondo, il New England Journal of Medicine, Eric Rubin, noto infettivologo, che, interrogato su come le istituzioni sanitarie dei vari Paesi dovrebbero comportarsi per contrastare la diffusione del virus, ha risposto indicando come la cosa più importante sia avere flessibilità e rapidità di azione nell’adottare soluzioni che mutano col rapido modificarsi delle situazioni epidemiologiche.
Non tutti i Paesi europei hanno sposato la stessa strategia di screening dei casi sospetti decisa dal nostro; in Germania, stato che ha comunque già stanziato 23 milioni di euro per far fronte all’emergenza, la politica di sorveglianza è ben diversa da quella italiana. In altre parole, più cerchiamo il virus, più positivi troveremo, ma questo ha un significato di salute pubblica limitato, tanto che le nuove indicazioni sono di sottoporre al tampone diagnostico solo i casi sospetti, non più i soggetti asintomatici. Anche la girandola di numeri a cui assistiamo sta alimentando un crescendo di tensioni solo in parte giustificato, soprattutto perché l’attendibilità del test su tampone faringeo non è del 100% e molto probabilmente le nostre stime sul numero di soggetti positivi non sono del tutto precise. Nessuno in questo momento ha la risposta giusta su come affrontare la situazione, il governo italiano ha cercato di preservare il più possibile la salute pubblica e se vi è stato qualche eccesso di scrupolo, soprattutto a livello di alcune regioni con forse qualche localismo di troppo, è stato figlio dell’emergenza, non certo di gratuite vessazioni. Come avevo scritto su queste colonne ancor prima che l’infezione si diffondesse in Italia, il modello cinese non è applicabile sic et simpliciter e a lungo termine alla nostra realtà, e, peraltro, non avrebbe senso. Se nei primi giorni era più che giustificato prendere provvedimenti assai rigidi, anche ora non bisogna abbassare la guardia di un millimetro ma forse si può pensare a coniugare le esigenze di salute pubblica, che vengono prima di tutto, con la necessità di non affossare irreversibilmente l’economia del Paese. Il Covid-19 è un virus che può avere un decorso clinico insidioso con repentini peggioramenti, per questo l’attenzione deve restare alta ma non è il virus Ebola e il nostro Servizio Sanitario Nazionale sta rispondendo decisamente bene alle nuove necessità, con una generosità straordinaria della quale va dato atto a tutti gli operatori sanitari. Certo le inchieste come quelle aperte dalla procura di Lodi non aiutano a lavorare serenamente chi è già in trincea. Il Paese è forte e ce la farà ma il Covid-19 non se ne andrà domani, è bene saperlo e armarsi per tempo.
Sergio Harari - da Corriere della Sera