Molte cose ci hanno stupiti dall’inizio della pandemia e ci sono risultate difficilmente comprensibili: facciamo fatica persino oggi, dopo due anni, a razionalizzare tutto quanto è accaduto.
L’impatto psico-sociale, oltre a quello strettamente sanitario, è stato devastante: ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, problemi alimentari e del sonno sono letteralmente esplosi mentre le preoccupazioni per il futuro lavorativo e economico hanno fatto il resto. Forse anche questo può concorrere a spiegare alcune reazioni di irritazione sociale, di rifiuto delle regole come avvenuto per il green pass o con l’opposizione alla vaccinazione contro il Sars CoV-2 da una parte significativa di cittadini. Fatti difficilmente comprensibili ma che in qualche modo eguagliano le percentuali di convinti terrapiattisti, con la differenza non banale che questi ultimi non fanno danni diretti alla società.
C’è però una cosa che davvero lascia senza parole e senza spiegazioni anche i medici più esperti e di lungo corso: il rifiuto alle cure in chi sta morendo di Covid.
I malati accettano percorsi terapeutici spesso durissimi pur di farcela o comunque di sopravvivere più a lungo, basti pensare alle cure faticosissime per alcuni tumori, alle mille difficoltà e dolori di un trapianto, eppure tutto si fa per non andarsene. L’attaccamento alla vita è qualcosa di atavico, di animalesco, che va al di là di ogni fede e religione.
Seguo pazienti con malattie molto serie e spesso gravi da molti anni ma ho sempre visto prevalere l’istinto di sopravvivenza: solo i malati in fase veramente terminale, senza speranze e con pochissimo tempo davanti, rinunciano agli ultimi attimi di vita. Mi è capitato qualche volta di dover convincere un paziente con prospettive di cura ad affrontare un percorso difficile e in salita ma mai ho assistito a un diniego così netto, oppositivo e ideologico come con i no-vax che da soli si condannano a morte certa e, purtroppo, anche angosciosa come solo la mancanza di fiato può causare.
È qualcosa che va contronatura e supera ogni capacità interpretativa.
Il malato sa che morrà, chi lo circonda vede in quali condizioni si trova, sa che il letto a fianco il suo era occupato fino a poche ore prima da un altro paziente che non ce l’ha fatta, eppure si ostina a dire no all’unica possibilità di sopravvivenza e magari completa guarigione. Addirittura alcuni rifiutano l’ossigeno mentre le unghie sono ormai blu per la cianosi e il fiato è sempre più corto.
Non credo che nella storia recente dell’umanità si siano mai registrate manifestazioni come queste e forse bisogna andare indietro nei secoli, risalendo all’oscurantismo del Medioevo, per ricordare simili irrazionali pulsioni autolesioniste.
Resta il senso di profonda frustrazione, di una vita che si sarebbe potuto tentare di salvare e se ne è andata così, di un lutto incomprensibile anche per chi è abituato a lavorare vicino alla morte ma spera sempre nella vita.
Corriere della Sera - Sergio Harari