Non solo rara, ma ultra rara. La linfangioleiomiomatosi (o LAM) è una malattia ancora oggi difficile da curare che colpisce quasi esclusivamente le donne, per lo più tra i 20 e i 40 anni. Coinvolgendo numerosi tessuti e organi (polmoni, reni, vasi linfatici e sanguigni) questa patologia porta al graduale deterioramento del tessuto polmonare e, nel 40 per cento dei casi circa, a sviluppare tumori renali benigni, gli angiomiolipomi. Inoltre chi ne soffre va incontro a un progressivo declino della capacità respiratoria, che nelle fasi avanzate richiede l’ossigenoterapia e il trapianto di polmone. «Al momento le uniche molecole che sembrano avere efficacia nel rallentare l'evoluzione della malattia sono i cosiddetti inibitori di mTOR (everolimus e sirolimus), ma continuiamo a cercare nuove opzioni terapeutiche» spiega Sergio Harari, direttore dell’Unità operativa di Pneumologia e di Medicina interna all'Ospedale San Giuseppe MultiMedica IRCCS di Milano, primo autore di uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Lancet Respiratory Medicine.
Linfangioleiomiomatosi, possibile nuova terapia per i malati (spesso giovani donne) che non rispondono alla cura standard
Un nuovo farmaco riesce a stabilizzare la funzionalità respiratoria in quelle pazienti che andavano incontro, nel tempo, a un progressivo peggioramento
03 Novembre 2024
Ascolta il podcast di The Lancet Respiratory Medicine con commento e spiegazione dello studio del Prof. Sergio Harari
Il nuovo studio
Lo studio MILES ha dimostrato, alcuni anni fa, l'efficacia di sirolimus nello stabilizzare la funzionalità respiratoria in chi soffre di linfangioleiomiomatosi, ma gli effetti collaterali di questo medicinale e lo sviluppo di meccanismi di resistenza alla cura sono dei potenziali limiti al trattamento sul lungo periodo. «Per questo abbiamo testato un altro farmaco, nintedanib, una piccola molecola che inibisce l’attività dei recettori tirosin-chinasici per il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR) - prosegue Harari, professore di Medicina interna all’Università Statale di Milano -. Si tratta di una sperimentazione di fase due, che ha voluto indagare efficacia e sicurezza di questo medicinale, assunto in compresse due volte al giorno. Abbiamo arruolato, fra il 2016 e il 2019, 30 donne che non avevano ancora ricevuto alcuna cura o che erano già in trattamento con sirolimus. In tutte le pazienti si era verificato un progressivo peggioramento della funzionalità respiratoria nell'ultimo anno e il nostro obiettivo era di invertire la rotta e portarle a respirare meglio».
I risultati
Il parametro che i ricercatori volevano riportare più vicino alla normalità è FEV (Forced Expiratory Volume in the 1st second) o VEMS (Volume Espiratorio Massimo nel Primo Secondo), fondamentale della spirometria: indica, infatti, il volume di aria che viene espirata nel corso del primo secondo di massima espirazione. Ovvero, in pratica, quanto bene riesce a respirare una persona. La sperimentazione prevedeva un anno di trattamento con il nuovo medicinale nintenadib e un successivo anno di osservazione senza terapia. I risultati dello studio non hanno dimostrato un miglioramento nelle pazienti trattate con nintedanib, ma la loro situazione (il valore di FEV-VEMS) è rimasta stabile e la cura è stata ben tollerata (gli effetti collaterali più frequenti, non gravi, sono stati nausea, diarrea e dolore addominale). «I risultati, quindi suggeriscono che questo nuovo farmaco potrebbe essere utile come seconda linea di trattamento in quelle pazienti nelle quali la LAM non viene tenuta sotto controllo dalla cura standard a base di inibitori di mTOR - conclude Harari -. Questo è il primo studio, dopo il fallimento di molti altri, che offre una concreta nuova opzione terapeutica alle donne affette da questa malattia. Siamo giunti a questo risultato grazie a un impegno di molti anni, alla collaborazione delle pazienti e allo sviluppo della conoscenza sui meccanismi molecolari alla base di questa rara e particolare malattia. Questa scoperta ha non solo ricadute positive cliniche, ma apre la porta anche a nuovi orizzonti di ricerca per trovare una cura definitiva e non solo una terapia per la linfangioleiomiomatosi».
Lo studio MILES ha dimostrato, alcuni anni fa, l'efficacia di sirolimus nello stabilizzare la funzionalità respiratoria in chi soffre di linfangioleiomiomatosi, ma gli effetti collaterali di questo medicinale e lo sviluppo di meccanismi di resistenza alla cura sono dei potenziali limiti al trattamento sul lungo periodo. «Per questo abbiamo testato un altro farmaco, nintedanib, una piccola molecola che inibisce l’attività dei recettori tirosin-chinasici per il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR) - prosegue Harari, professore di Medicina interna all’Università Statale di Milano -. Si tratta di una sperimentazione di fase due, che ha voluto indagare efficacia e sicurezza di questo medicinale, assunto in compresse due volte al giorno. Abbiamo arruolato, fra il 2016 e il 2019, 30 donne che non avevano ancora ricevuto alcuna cura o che erano già in trattamento con sirolimus. In tutte le pazienti si era verificato un progressivo peggioramento della funzionalità respiratoria nell'ultimo anno e il nostro obiettivo era di invertire la rotta e portarle a respirare meglio».
I risultati
Il parametro che i ricercatori volevano riportare più vicino alla normalità è FEV (Forced Expiratory Volume in the 1st second) o VEMS (Volume Espiratorio Massimo nel Primo Secondo), fondamentale della spirometria: indica, infatti, il volume di aria che viene espirata nel corso del primo secondo di massima espirazione. Ovvero, in pratica, quanto bene riesce a respirare una persona. La sperimentazione prevedeva un anno di trattamento con il nuovo medicinale nintenadib e un successivo anno di osservazione senza terapia. I risultati dello studio non hanno dimostrato un miglioramento nelle pazienti trattate con nintedanib, ma la loro situazione (il valore di FEV-VEMS) è rimasta stabile e la cura è stata ben tollerata (gli effetti collaterali più frequenti, non gravi, sono stati nausea, diarrea e dolore addominale). «I risultati, quindi suggeriscono che questo nuovo farmaco potrebbe essere utile come seconda linea di trattamento in quelle pazienti nelle quali la LAM non viene tenuta sotto controllo dalla cura standard a base di inibitori di mTOR - conclude Harari -. Questo è il primo studio, dopo il fallimento di molti altri, che offre una concreta nuova opzione terapeutica alle donne affette da questa malattia. Siamo giunti a questo risultato grazie a un impegno di molti anni, alla collaborazione delle pazienti e allo sviluppo della conoscenza sui meccanismi molecolari alla base di questa rara e particolare malattia. Questa scoperta ha non solo ricadute positive cliniche, ma apre la porta anche a nuovi orizzonti di ricerca per trovare una cura definitiva e non solo una terapia per la linfangioleiomiomatosi».